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In questi due anni di inflazione record, i conti correnti delle famiglie venete subiranno una “sforbiciata” da 15,1 miliardi di euro. Come si è giunti a questo risultato? In primo luogo, l’Ufficio studi della CGIA ha ipotizzato che i 103,8 miliardi di euro presenti nei conti correnti bancari dei veneti non abbiano registrato alcuna variazione nell’arco temporale preso in considerazione. In secondo luogo, a seguito dell’aumento dei prezzi che nel biennio 2022-2023 si stima attorno al 15 per cento, ha calcolato la perdita di potere d’acquisto dei nostri risparmi. L’esito emerso da questa elaborazione è “spaventoso”: praticamente ci troviamo di fronte a una patrimoniale da oltre 15 miliardi di euro che a ogni nucleo familiare veneto costerà mediamente 7.253 euro.
A livello territoriale, nel biennio 2022-2023 il costo medio più salato lo subiranno le famiglie residenti a Treviso con un prelievo medio di 7.948 euro. Seguono quelle di Padova con 7.553, Verona con 7.543, Vicenza con 7.419 e Belluno con 7.198. Chiudono la graduatoria Venezia con 6.143 euro e Rovigo con 6.045. La media nazionale è pari a 6.338 euro a famiglia.
A distanza di oltre 30 anni, molti ricordano ancora con grande sdegno il prelievo straordinario del 6 per mille applicato dall’allora Governo Amato sui conti correnti degli italiani. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1992, infatti, quella misura costò alle famiglie italiane 5.250 miliardi di lire, ovvero 2,7 miliardi di euro. Attualizzando questo importo, il prelievo si attesta a 5,3 miliardi di euro; praticamente un “sacrificio” economico 31 volte inferiore a quello stimato dall’Ufficio studi della CGIA (per l’Italia pari a 163,8 miliardi di euro) nel biennio 2022-2023.
Con un tasso di interesse praticato dalla BCE che lo scorso dicembre si è attestato per quasi tutto il mese al 2 per cento (vedi Graf.1), ovvero, lo stesso di quello che avevamo nel febbraio del 2009, che effetti economici ha prodotto a un ipotetico correntista? Se 14 anni fa il tasso attivo era dello 0,75 per cento, 2 mesi fa si è attestato allo 0,12 per cento, “provocando” uno svantaggio per il risparmiatore dello 0,63 per cento. In altre parole, a fronte di 10 mila euro depositati nel conto corrente, rispetto al 2009 ci troviamo con 63 euro in meno. Se, come sostengono molti esperti, entro la fine del 2023 il tasso salisse al 4 per cento, raggiungendo lo stesso livello toccato tra il luglio 2007 e il giugno 2008, sui nostri ipotetici 10 mila euro depositati in banca perderemmo 107 euro (vedi Tab.2). Non si tratta di cifre importanti, tuttavia se le banche tornassero a riconoscere un leggero aumento dei tassi attivi sulle somme libere depositate nei conti correnti, la clientela potrebbe almeno coprire i costi fissi. Cosa, invece, che è stata praticata dagli istituti sulle somme vincolate, anche se, molto spesso, per tantissimi correntisti districarsi tra un “mare” di offerte è estremamente difficile. Uno sforzo economico, quello che dovrebbero sostenere le banche se ritoccassero all’insù i tassi sui risparmi non vincolati, tranquillamente sostenibile, visto che nell’ultimo anno le cose sono andate molto bene. I cinque più importanti istituti nazionali – Intesa, Unicredit, BancoBpm, Monte Paschi e Bper – hanno chiuso il 2022 con utili netti pari a 12,7 miliardi. Un aumento del 65 per cento rispetto al 2021.
Written by: Redazione